“Nella Tenda il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico” (dal Libro dell’Esodo 33,11)
Il tema di quest’anno che ci guiderà nell’adorazione eucaristica del Giovedì santo, sia come riflessione sia simbolicamente è quello della Tenda.
La Tenda ha un significato grande nella tradizione biblica ebraica. Essa era il luogo della “Presenza” di Dio, dell’”Assemblea” della Comunità, era in sintesi il luogo dell’Incontro di Dio con l’uomo, dell’incontro dell’uomo con l’uomo, luogo per eccellenza quindi di Relazione.
Sappiamo dalla parola di Dio come la Tenda accompagni il popolo ebraico nel suo pellegrinaggio nel deserto. Molti sono i passi che l’Esodo come anche il libro dei Numeri o i Salmi dedicano alla Tenda. Quale era il significato di tale Tenda?
Tenda in ebraico Shekhinah deriva dal verbo ebraico שכן. La radice semitica letteralmente significa stabilirsi, abitare, o dimorare. Tale parola ha radice nell’etimo spesso usato per riferirsi ai nidi d’uccello e alle nidificazioni e può anche significare “vicino/prossimo”. La parola usata per “Tabernacolo”, mishkan, è un derivato della stessa radice ed è usato nel senso di “dimora”.
Essa è il luogo della Presenza di Dio e del Convegno. Essa accompagna come abbiamo detto il popolo ebraico nel lungo pellegrinaggio verso la Terra Promessa.
Su di essa si posava la “Nube” la “Gloria di Dio” (gloria è kabōd: tale termine implica l’idea di peso, importanza, rispetto). Il popolo assisteva a tale prodigio e stava in attesa che Mosè vi entrasse dentro a parlare con Dio “faccia a faccia”, senza morire, “come un uomo con un altro”. Si, non si poteva vedere Dio e rimanere in vita. E invece Dio si mostra. Se in un certo momento Dio ha mostrato a Mosè le sue spalle mentre questi era nella cavità del monte Oreb (Es. 33,18-23) o Mosè stesso si prostra a terra per paura di vedere il Jawhe in faccia e quindi morire (Es. 34,5-8), ora Dio si mostra, mostra il suo volto. Mostra il suo volto Amico nel volto del Figlio. Non c’è più bisogno di dire con il salmista “mostrami Signore il volto”, ora lo vediamo, lo contempliamo nel volto del Dio Figlio Gesù.
Questo è accaduto perché un’altra Tenda si è “piantata” sulla nostra terra. Il Vangelo di Giovanni dice: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria”. I verbi che Giovanni usa per esprimere l’Incarnazione di Cristo in questo breve, ma intenso e complesso versetto: σὰρξ ἐγένετο
(si fece carne) continuando con ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν la frase greca col verbo eskénosen che significa appunto “pose la sua tenda, si attendò”. Si ha qui un ammiccamento sia simbolico sia lessicale all’ebraico biblico. Nell’Antico Testamento, si parlava infatti della “tenda dell’incontro” fra Dio e Israele, che era il santuario mobile del deserto.
Non è più la Nube Divina, non è più la “kabōd” la gloria pesante avvertita, è la “consistenza carnifica” di Dio che si mostra: la tenda non è più fatta di tela ma di carne. Non è più una Voce e una Nube che si mostra, è proprio il Volto Umanizzato di Gesù.
Ecco il naturale e Divino collegamento tra il mistero dell’Incarnazione e della Passione e Resurrezione di Gesù, collegamento avvenuto nei “legami non di corde e paletti e stoffa” ma nella Carne di Dio.
Ma il mistero della presenza di Dio in mezzo al suo popolo si fa più grande. Se prima era una Tenda che accoglieva l’uomo per farlo incontrare con Dio, ora un’altra tenda è stata preparata. Le situazioni si sono paradossalmente ribaltate. La “tenda umana” accoglie Dio nella specie Eucaristiche. Che Mistero! Dio ha voluto rimanere in mezzo, anzi dentro l’uomo facendosi Pane. Come la Manna nel deserto che sfamava la fame fisiologica dell’uomo, così Dio si fa ancora Manna-Pane per sfamare la nostra fame spirituale, di senso di pienezza di felicità.
Prima era una “Tenda Presenza di Dio” che conteneva l’uomo ora è l’uomo che contiene Dio. Prima nella “foschia di una Nube” il popolo di Dio poteva intravedere e intuire Dio, ora lo può contemplare davvero “faccia a faccia” senza paura di morire, poiché è Dio che morto per “salvare la faccia”, il volto imbruttito dal peccato dell’uomo.
Se prima la “kabōd” la gloria di Dio che si faceva sentire pesante sull’uomo, ora è il peso dei peccati dell’uomo che si fanno sentire sulle spalle inchiodate del Figlio di Dio. Se prima era la gloria di Dio a pesare come segno di magnificenza delle operare e delle opere di Dio, ora “la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio” come ci direbbe Sant’Ireneo di Lione in “Contro le eresie”. L’uomo è l’orgoglio di Dio. Dio si è beato e si bea degli uomini. Dio è contento della sua creatura, ecco perché non può che amarci, ed ecco perché da la sua vita per noi, perché vuole rendere glorioso ogni uomo.
Ecco che allora il faccia a faccia ha pieno significato nel continuo della frase: “come uno parla al proprio amico”. Anche il tema dell’amicizia attraversa tutta la Bibbia. È Dio che stringe amicizia con l’uomo, è Dio che si lega all’uomo con l’alleanza sempre “nuova”. Dio vuole essere amico dell’uomo, lui è fedele all’uomo. Non sempre il contrario. Anche Gesù ha vissuto l’amicizia: quella con Marta, Lazzaro e Maria (cfr. Lc. 10,38 “una donna di nome Marta lo ospitò”); quella con i peccatori (cfr. Mt. 11,19 “amico dei pubblicani e dei peccatori); quella di Pietro (cfr. Gv. 21,17 “mi sei amico?”); quella di Giuda (cfr. Mt. 26,50 “Amico per questo sei qui!”). L’amicizia per Gesù assume un valore grande: “non vi chiamo più servi ma amici” (Gv. 15.15). Per Gesù l’amicizia “diventa virtù fondata sulla fede profonda, che può trasformarsi in comunione spirituale e generare una forma di relazione stabile e duratura”.
L’amicizia profonda è il luogo dell’intimità scambievole, dove l’uno conosce l’altro e si fa conoscere dall’altro. Nell’amicizia vera non ci si annulla, ma ci doniamo tutto; non usiamo l’altro ma lo valorizziamo. E questo anche nel verso contrario. Gesù ci vuole incontrare faccia a faccia, Lui nella “Carne” del Pane Eucaristico e noi nella nostra carne. Desidera guardarci negli occhi. Non è “Adorazione idolatrica”, ma contemplazione tra due esistenze. Dio contempla l’uomo, lo guarda nel profondo, poiché è nel profondo che Dio scopre il vero uomo. Così l’uomo contempla Dio e nel contemplarlo scopre di essere parte di Lui, perché siamo “sua immagine e somiglianza” e in questa immagine noi vogliamo sempre più assomigliargli, acquisire quelle virtù, diventare come Lui: “Cristo, che è il nuovo Adamo, (…) svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione”. (Gaudium et Spes 22).
Concludo prendendo spunto dalla vita dei santi. Chi meglio dei santi ha vissuto il “faccia a faccia come con un amico” con Gesù? Nella vita del Santo Curato d’Ars si racconta di un contadino che, ogni giorno e alla stessa ora, entrava nella chiesa parrocchiale, e si sedeva nell’ultimo banco. Non aveva libri di preghiere con sé perché non sapeva leggere; non aveva tra le mani nemmeno la corona del rosario. Ma ogni giorno, alla stessa ora, arrivava in chiesa e si sedeva nell’ultimo banco…e guardava fisso il Tabernacolo. San Giovanni Maria Vianney, incuriosito da quel modo strano di fare, dopo aver osservato quel suo parrocchiano per qualche giorno, gli si avvicinò e gli chiese: “buon uomo…ho osservato che ogni giorno venite qui, alla stessa ora e nello stesso posto. Vi sedete e state lì. Ditemi: cosa fate?”. Il contadino, scostando per un istante lo sguardo dal Tabernacolo rispose al parroco: “Nulla, signor parroco…io guardo Lui e Lui guarda me”. E subito, riprese a fissare il Tabernacolo. Il santo Curato d’Ars descrisse quella come una tra i più alti segni di fede e di preghiera.